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Focus

Il senso di tenere in agenzia anche una tuta da astronauta

Per salvare i sogni che avevate da bambini vi serve la noia. E magari una tuta

 

Tra tutti i cliché del "da bambino sognavo di fare questo e quello", la professione dell'astronauta condivide le prime posizioni della classifica dei più citati assieme al veterinario, alla cantante e al calciatore.

Si sa, i cliché sono delle sintesi approssimative e non tengono conto dei tanti e tanti bambini che con molta più originalità dicono di voler diventare benzinai, parrucchieri, bancari, gestori di bed & breakfast (tutti esempi veri, usciti dai sogni di figli e di nipoti di persone in copiaincolla). Non importa.
Abbiamo preso l'astronauta come un'allegoria, come il simbolo dei sogni che da bambini si nutrono per la propria vita da grandi. E poi abbiamo scelto di prendere anche una vera tuta spaziale da tenere qui da noi. Come monito.

Non tutti quelli di copiaincolla sognavano di fare il creativo, lo sviluppatore, lo strategist, l'account eppure tutti quelli di copiaincolla potrebbero dire ai loro stessi bambini "tranquilla, tranquillo, andrà bene. Farai un lavoro non ripetitivo, in spazi poco prevedibili, con giornate intervallate da momenti di relax che i tuoi amici che fanno altri lavori ti invidieranno".
Dunque, volendo semplificare molto, siamo tutti riusciti a fare l'astronauta qui. E ci siamo riusciti perché abbiamo proseguito dove molti bambini cresciuti si fermano, ossia dove escono i problemi, la fatica, i prezzi da pagare, i sacrifici, la noia, la pazienza necessari per diventare davvero astronauti. Abbiamo sopportato il trauma di scoprire che il sogno è fatto anche di cose spiacevoli. Che per essere reale il sogno deve macchiarsi delle imperfezioni della realtà.
Di più: per essere reale il sogno deve accettare l'eventualità di fallire, di non vedere mai la luce.

Cristoforetti è arrivata là senza sapere che ci sarebbe arrivata. Ci è arrivata iniziando studi e carriera molto lontani dalla meta, diventando prima tutto quello che avrebbe potuto permetterle di arrivare a sedersi su un missile, ma anche no.
Non stava scritto da nessuna parte. Non c'era alcuna certezza. E soprattutto quasi ogni cosa che studiava e faceva era piena di tecnicismi, di dettagli freddi, di preparazione maniacale, di cose insomma che sono per loro stessa natura sognicide, che uccidono il sogno e il suo fascino. Che smorzano il fermento e la passione. Che fanno sorgere i dubbi: "io volevo quella cosa perché era bella mentre ora sembra che la strada per arrivarci sia solo brutta".
Quindi perché mai proseguire? E così si smette di sognare quel sogno e poco alla volta si smette di sognare ogni sogno.

Tenere a portata di mano qui una tuta da astronauta aiuta ad apprezzare che i sogni non esistano. Esiste la noia ed esistono i tempi morti che escono di fronte al sogno, e sono due grandi fortune per la vita adulta. A volte la guardiamo solamente, altre volte la accarezziamo o tentiamo di giocherellare con tubi e manopole.
Indossare il casco poi è una di quelle sciocchezze che possono servire a distrarsi un momento, a farsi una foto, a immaginarsi in orbita attorno a gigantesche palle che galleggiano nel buio sconfinato e a volte a far smettere di girare quelle invece più personali e più terrene.

Una tuta per fare sogni e per ricordarsi di quanto sia importante annoiarsi e fare fatica mentre li si fanno. Che altrimenti svaniscono.

Intermezzo: "astronauti vs. cosmonauti"

Una cosa che non c'entra nulla con il senso di questa pagina, ma che offre una riflessione.

Se chiamiamo gli astronauti "astronauti" è perché come in molti altri ambiti della cultura occidentale ha prevalso l'impronta statunitense, o atlantica come va di moda dire negli ultimi mesi, su quella dell'est. Non fosse stato quello l'epilogo, ora magari li chiameremmo "cosmonauti" come facevano nell'Unione Sovietica.

Si sa, uno dei fronti su cui si è consumata la Guerra Fredda è stato anche quello dello spazio, con USA e URSS a investire capitali spaventosi nella ricerca e nell'industrializzazione per portare prima l'uomo nello spazio, poi sulla luna e poi chissà dove ancora.
Le due potenze rappresentavano due mondi opposti. Due concezioni della vita, della società, dell'economia, del modo in cui possedere beni personali, del come avere una carriera professionale, fare la spesa, passare il tempo libero e ogni altra cosa.
Figurarsi se potevano chiamare allo stesso modo gli eroi che, armati delle loro bandiere, mandavano alla conquista dell'ignoto sopra le nostre teste.

La distinzione Astronauta contro Cosmonauta, esattamente come due brand, fa comprendere una volta di più quanto sia importante riconoscersi nei marchi.
Quanto dietro a un brand, a un simbolo, ci siano motivazioni ideologiche e quanto uno schema che vale nel mercato dei consumi valga in ogni altro ambito e in ogni epoca. Lambretta vs. Vespa, Oasis vs. Blur, Guelfi vs. Ghibellini, Coppi vs. Bartali, Democrazia Cristiana vs. Partito Comunista. Diventano culti, mezzi attraverso cui definiamo la nostra persona, qualcosa a cui sentire di appartenere.

USA e URSS non avrebbero mai potuto chiamare allo stesso modo due cose identiche e talmente centrali per loro in quell'epoca, esattamente per le stesse ragioni per cui in URSS non avrebbe mai potuto entrare la Coca-Cola ed esattamente per le stesse ragioni che avevano reso storica l'apertura del primo Mc Donald's in piazza Pushkin a Mosca nel 1990.

Ragioni culturali. Addirittura emotive.

Per crederci non deve essere vero. Deve solo essere utile

 

Che ci fosse davvero una capanna a Betlemme con un neonato all'interno e che ci fossero davvero un bue e un asino a vegliare sul pargolo, non ha alcuna importanza. Per chi crede, non cambierebbe nulla scoprire che storicamente è tutto falso. Capanna, bambino, animali e tutti gli altri componenti di quella scena hanno un valore che va oltre il vero o falso.

Quella narrazione è stata creata perché era utile. Serviva a far arrivare alle menti la storia di un messia e i concetti della religione che professava. Una fede che è stata ed è per molti una guida, un riferimento, una consolazione, un aiuto. E di fronte a tutta questa forza che volete che importi della veridicità della capanna di Betlemme.

Lo stesso vale per Babbo Natale: pensate a quanto vi emoziona ricordare la vostra attesa da piccoli e pensate a quanto vi spiace che la fine dell'infanzia ve l'abbia portata via. Eppure sapete che era falso.

O pensate agli sciocchi riti scaramantici che chiunque di noi può avere. Rappresentano una fonte di sicurezza nonostante razionalmente sappiamo perfettamente che non hanno alcuna relazione con ciò che ci accadrà, e addirittura ci ostiniamo a ripeterli anche dopo aver avuto l'evidenza che non hanno portato bene.

Dunque immaginate cosa possiamo farcene del complottismo attorno all'uomo sulla luna.
Se davvero avessero ragione coloro che sostengono che sia stata una montatura, che le immagini siano state girate in qualche studio cinematografico, il sogno dei bambini di diventare astronauti, il loro fascino di donne e uomini a bordo di razzi sparati verso le stelle, non soffrirebbe nessun ridimensionamento.

La nostra mente non sempre cerca la verità, ma di certo cerca sempre ciò che le serve. Quel che crede le sia utile.

A noi, qui, è utile avere quella tuta anche senza essere astronauti. A noi, qui, è utile credere al valore di un sogno e al valore di quel che sporca quel sogno. Credere che il sogno non è altro che mettere in conto che può svanire e che sarà fatto anche di cose per nulla divertenti.
E forse questo non è altro che l'ambizione, diversa dalla cieca utopia. L'ambizione ha i piedi a terra, l'utopia la testa tra le nuvole. Nuvole cariche di pioggia.

Tutto questo per dirvi, in sostanza, che in copiaincolla c'è anche una tuta da astronauta.
Serve a ricordare l'importanza di far entrare dentro ai sogni anche la noia, la fatica, le giornate storte. Altrimenti non sono nulla. Altrimenti i sogni non sono utili.

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