In quel celebre titolo di Erich Maria Remarque c'è tutta l'assurda e tragica staticità della guerra di trincea. Eserciti che attendono. Attendono la prima mossa dell'altro, attendono che dalle retrovie arrivino novità talmente buone o talmente cattive da motivarli ad avanzare con decisione oppure a battere in ritirata, ma per lo meno a fare finalmente qualcosa dopo mesi e mesi passati dentro a fossati scavati nel terreno a pochi metri gli uni dagli altri, nemici tra loro. Niente di nuovo sul fronte occidentale è questo: la stagnazione macabra delle guerre di posizione. Combattute restando fermi.
Posizioni talmente alienanti per gli animi dei soldati che arrivavano a dimenticare talvolta il senso stesso del conflitto che stavano combattendo. Questo poteva avere effetti come le diserzioni o l'autoinflizione di ferite che potessero giustificare la necessità di un ricovero nelle retrovie, lontano dal fetore brutale della trincea. Questo poteva anche portare a inaspettati gesti di umanità e solidarietà, addirittura tra truppe nemiche. Era accaduto nei giorni attorno al Natale del 1914, da qualche parte in Belgio.
Per tutta la notte cantammo, ora essi ora noi, le più gaie canzoni, così avrebbe raccontato un soldato inglese la tregua di Natale tra il suo battaglione e quello tedesco appostato nella trincea sull'altro lato del fronte.
Spontaneamente e disobbedendo agli ordini dei loro comandi, avvicinandosi al 25 dicembre di quell'anno i soldati avevano iniziato a intonare canzoni di Natale e a lanciarsi messaggi d'auguri tra una sessione di mortaio e l'altra. Erano poi arrivate tregue temporanee per poter seppellire ognuno i propri caduti. Erano poi arrivati momenti di conoscenza e fretallanza e fotografie tutti assieme. Fino allo scambio di alcuni regali e a una incredibile partita di calcio che ha anche ispirato un film.
Poi il Natale era passato e la guerra aveva di nuovo costretto tutti a dimenticare sorrisi e abbracci. La posizione prima mantenuta, poi infranta, poi di nuovo ripresa.